Dal ricorso maggiore all’ATP alle richieste più congrue, da dove ripartire per aiutare il sistema a non crollare
Uno dei problemi che affligge la responsabilità sanitaria nel nostro Paese pare essere la difficoltà di chiudere i contenziosi con ATP o comunque in via stragiudiziale.
E questo accade, paradossalmente, per mancanza di responsabilità: richieste eccessive da una parte, solleticate da alcuni legali senza scrupoli, contenziosi lunghissimi dall’altra, preferiti dalle strutture che non vogliono assumersi la responsabilità di definire un risarcimento in via transattiva, che potrebbe essere ribaltato dalla Corte dei Conti.
Nel mezzo, c’è la legge Gelli che ancora non si riesce ad attuare del tutto e una comunicazione carente tra le strutture e i medici, ma anche tra questi ultimi e il paziente, vera miccia che innesca buona parte dei contenziosi.
Ne abbiamo parlato con il dottor Franco Marozzi, vice presidente della Società Italiana di Medicina Legale e Presidente del Comitato Scientifico di Fondazione Sanità Responsabile.
Dottor Marozzi, le richieste di risarcimento aumentano, i medici sono sotto pressione, da dove possiamo ripartire per gestire la responsabilità sanitaria in modo più efficiente?
Credo che il problema principale sia l’incapacità di superare la tematica del contenzioso: nella stragrande maggioranza dei casi, non riusciamo a raggiungere soluzioni di tipo negoziale o di natura conciliativa prima o durante il contenzioso, utilizzando lo strumento dell’ ATP, cioè l’accertamento tecnico preventivo che è previsto dalla legge. La difficoltà è essenzialmente connessa alla problematica del controllo a posteriori che può fare la Corte dei Conti sulle amministrazioni pubbliche.
Mi spiego meglio: se un’amministrazione dovesse accettare di procedere a conciliazione in sede di ATP, e quindi concordare un certo importo da versare alla parte offesa a titolo di risarcimento, la Corte dei Conti potrebbe, in un momento successivo, ritenere questi importi incongrui e chiederne conto alla pubblica amministrazione.
Se invece è il giudice a determinare l’importo, la responsabilità del funzionario non viene in rilievo, perché è stato il giudice a stabilire la somma, non la struttura. E la Corte dei Conti difficilmente si mette a questionare una sentenza, mentre fa molti più controlli in caso di ATP. Questo è quello che secondo me succede e che amplifica le problematiche.
Prima della legge Gelli le strutture erano assicurate da grandi compagnie, poi la situazione è cambiata: perché è così difficile assicurare una struttura sanitaria?
Prima della legge Gelli le strutture assicurative garantivano una copertura che toglieva alle Asl gran parte delle responsabilità perché era l’assicurazione a gestire il contenzioso; il progressivo abbandono delle grandi assicurazioni ha determinato una gestione diretta da parte di molte strutture regionali.
Assicurare un’azienda ospedaliera ha dei costi molto elevati dal punto di vista anche organizzativo, perché è molto complesso gestire pratiche di responsabilità medica, non è come gestire la responsabilità civile dell’auto, occorrono consulenti e avvocati molto preparati.
Ogni caso è a sé stante e le assicurazioni detestano avere dei sinistri aperti di cui non si sa dosare esattamente il rischio: non si sa quanto dureranno e quanto costeranno. Oggi, quindi, le strutture pagano spesso di tasca propria. Con soldi pubblici. Ecco perché preferiscono il placet del giudice, così non devono rispondere dei soldi versati come risarcimento.
C’è da dire che l’impatto economico dei sinistri è piuttosto modesto rispetto alle spese complessive di una grande struttura ospedaliera, perché in realtà i sinistri sono molto pochi ed è anche difficile fare dei conti proprio per la lunghezza della procedura: la durata media di risoluzione di un contenzioso in Italia è 7 anni.
Per sbloccare questa situazione, bisognerebbe rendere gli ATP o comunque la via stragiudiziale un po’ più fluida, ma come abbiamo visto non è facile perché le strutture non vogliono assumersi responsabilità erariali.
Un altro tema importante è la comunicazione ai sanitari che, per legge, la struttura deve fare obbligatoriamente e in tempi certi. Come avviene questa comunicazione?
Secondo la legge 24 del 2017 (la “Gelli”) le strutture sanitarie sono obbligate a comunicare ai professionisti sanitari interessati la richiesta di risarcimento per un caso in cui sono coinvolti.
Il modo con cui viene gestita questa comunicazione è problematico, a mio avviso, perché i professionisti sanitari si sentono costantemente sotto processo: in caso di contenzioso, dove non si sa neppure se il medico abbia in effetti un qualche tipo di responsabilità, si procede con la comunicazione al sanitario, comunicazione che assume sempre toni terroristici più che conciliativi.
L’azienda dovrebbe dire al medico: c’è questo contenzioso, ma tu sei indenne in quanto non c’è colpa grave, dovesse esserci colpa grave ti avviso io dopo. Invece oggi si parte già avvisando il medico che potranno chiedergli un risarcimento, senza sapere se c’è davvero colpa grave. La gravità della colpa in realtà potrebbe già definirsi ancora prima della comunicazione al medico, perché ogni struttura sanitaria è dotata di comitato di valutazione proprio per questi casi.
Peraltro i casi di colpa grave sono davvero minimi. In questo modo, la comunicazione sarebbe più “serena”, il medico non si sentirebbe sotto processo e lavorerebbe meglio, evitando la medicina difensiva, uno degli obiettivi per cui è nata la stessa legge Gelli che impone questa comunicazione!
Un altro tema sono le richieste di risarcimento, molte delle quali inconsistenti. Quali sono le motivazioni?
Ci sono molte richieste di risarcimento del tutto incongrue che pongono un problema etico e deontologico per chi si occupa di responsabilità sanitaria: un legale dovrebbe sapere quando è il caso di procedere o di lasciar perdere affidandosi a consulenti medico legali che possano fornire loro consigli adeguati.
Al netto di quelle incongrue, tra quelle invece che meritano di essere portate avanti, molte nascono dalle condizioni conflittuali che sussistono tra struttura sanitaria e paziente. Questo è dovuto a diverse ragioni: il sistema sanitario in questo momento è in grave crisi sia per scarsità di personale sia per continue richieste di aumento di produttività.
Quindi il rapporto tra medici e paziente è sempre molto difficile. Il legame con il paziente da parte del medico è diminuito un po’ per cultura e scarsa preparazione iniziale e un po’ perché ci sono delle deficienze organizzative clamorose: abbiamo un personale sanitario ridotto all’osso.
Ci sono addirittura specialità che sono quasi completamente disertate dagli specializzandi in questo momento, e che richiedono grande sacrificio, come la medicina d’urgenza e la chirurgia generale. Quindi la pressione è molto forte.
E l’università fa poco per formare i futuri medici alla relazione con il paziente. È chiaro che in questo contesto il rapporto con il paziente si degrada: in una situazione di forte pressione, con poco tempo a diposizione, se si verifica un evento avverso e il paziente non viene informato in modo corretto, si crea un conflitto che arriva al contenzioso.
Quali sono quindi i motivi principali per cui i pazienti richiedono un risarcimento?
Nella maggior parte dei casi tutto nasce da complicazioni in itinere nella cura del paziente, complicazioni che non sono nemmeno errori, sono semplicemente situazioni in cui la conflittualità si accende per altri motivi, perché non si ascolta il paziente o lo si ignora.
Una minima parte delle richieste ha come protagonista un reale errore tecnico o procedurale. Negli altri casi, si tratta di situazioni in cui si rompe una relazione e se, in questa relazione mancante, qualcosa va storto, tutto ciò diventa il fulcro di una possibile richiesta di risarcimenti o di azioni comunque di tipo legale, ma che non hanno un fondamento tecnico.
Come dovrebbe quindi essere gestita la responsabilità sanitaria?
La Riforma della Giustizia ha come obiettivo la semplificazione dei procedimenti, per decongestionare la mole di lavoro e cercare di alleggerire la pressione sulle carceri in ambito penale e ridurre i tempi del contenzioso in tutti gli ambiti giudiziari.
Ma non possiamo pensare che sia solo questo il motivo. La ragione della Riforma deve essere prima di tutto culturale.
E in riferimento alla responsabilità sanitaria, il sistema dovrebbe funzionare in modo metodico rispetto a richieste corrette. Oggi non è così: da un lato c’è una richiesta eccessiva di risarcimento, dall’altro c’è una risposta da parte delle aziende sanitarie che non è strutturata rispetto alle richieste.
Mancano dati e analisi approfondite sulla responsabilità sanitaria, perché in realtà lo studio complessivo di questo settore non è mai stato fatto dal punto di vista scientifico: bisognerebbe andare a guardare quali sono i sinistri da pagare che sono finiti ingiustamente in causa, e che avrebbero potuto risolversi in sede stragiudiziale. Perché ricordiamoci che un contenzioso che non termina immediatamente costa molto di più.
Direi quindi che le priorità su cui oggi bisognerebbe concentrarsi sono queste:
- Evitare che si aprano contenziosi incongrui, cioè senza basi tecniche.
- In caso di contenzioso congruo, le aziende dovrebbero valutarne correttamente la sussistenza e risarcire in modo transattivo, così da ridurre il carico della Giustizia.
Manca un’assunzione di responsabilità su entrambi i fronti: lato pazienti, molti legali non si fanno scrupoli e portano avanti richieste incongrue; lato aziende sanitarie, queste non si vogliono assumere responsabilità e preferiscono che sia il giudice a decidere nel merito.